Zuck è un leader: che lo voglia o di controvoglia

La nuova missione glocal di Facebook non è un tema comunicativo, è politico: per quanto smentisca, Zuck concretizza lo scenario di un despota illuminato.
Zuck è un leader: che lo voglia o di controvoglia
La nuova missione glocal di Facebook non è un tema comunicativo, è politico: per quanto smentisca, Zuck concretizza lo scenario di un despota illuminato.

Una volta lo scrittore americano Ralph Emerson disse che ci sono tempi in cui come popolo abbiamo bisogno di “un uomo che ci costringa a fare quello che sappiamo fare”. In un certo senso, un lean-leader, che invece di dire o ancora meglio dimostrare, ispiri le azioni delle persone e costruisca insieme a loro qualcosa di nuovo. Leggendo la lettera di Mark Zuckerberg pubblicata ieri si nota un messaggio di prepotente leadership politica: che lui lo voglia davvero oppure no, sta accadendo qualcosa di grosso.

La nota di Zuck sul suo social non è ancora un manifesto, somiglia di più a un flusso, a un grande discorso pubblico che attende ancora una sintesi. Mascherato da documento di missione del social network, il testo sfiora il geniale nel non smentire mai direttamente i principi inossidabili – su privacy, responsabilità degli utenti, neutralità della piattaforma – che hanno guidato Big F in questi 13 anni, ma nello stesso tempo spostando il discorso all’istante successivo alla pubblicazione dei contenuti. Zuckerberg ha stabilito una specie di legge fisica delle reti di comunicazione che non poteva essere sperimentata prima, dato che nessuno aveva mai avuto due miliardi di utenti nei propri server a questo livello di interazione e di produzione di dati personali.

Da qui muove la responsabilizzazione e la conseguente “infrastruttura sociale” a cui idealmente aspira:

C’è un detto: sopravvalutiamo sempre cosa possiamo fare in due anni e sottovalutiamo ciò che possiamo fare in dieci. Forse non abbiamo il potere di modellare subito il mondo che vogliamo, ma possiamo iniziare tutti a lavorare sul lungo termine. In tempi come questi, la cosa più importante che Facebook può fare è sviluppare le infrastrutture sociali per dare alla gente il potere di costruire una comunità globale che funzioni per tutti noi.

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Le sfumature culturali

Si potrebbe dire che Mark Zuckerberg, con un certo ritardo (oppure in modo avanguardistico, vai a saperlo) ha scoperto il concetto di glocal. In un commento sul NYT, Zuck racconta di aver iniziato a pensare a questa svolta dopo l’episodio della fotografia della bambina vietnamita cancellata per errore. Uno dei tanti episodi che dimostrano da un lato la debolezza degli algoritmi, ai quali non può essere demandato il discrimine giusto-sbagliato, vero-falso senza intervento umano, dall’altro evidenzia la debolezza del sistema di segnalazione del social, che fin qui ha ignorato le sfumature culturali ed è andato alle corde sulla questione fake news:

Non credo che noi, seduti qui in California, siamo nella posizione migliore per sapere quali dovrebbero essere le norme nelle comunità in tutto il mondo.

Un discorso da politico che non dovrebbe esserlo

Il testo è davvero pieno di stimoli, soprattutto nella parte in cui inserisce Facebook nell’evoluzione dei gruppi umani. Le sue parole sono piuttosto impressionanti e potrebbero ricordare alcuni speech del romanzo “Il cerchio” di Dave Eggers. Ad esempio questo passaggio:

Oggi siamo vicini al prossimo passo. Le nostre più grandi opportunità sono ormai globali – come diffondere la prosperità e la libertà, la promozione della pace e della comprensione, la liberazione delle persone dalla povertà, l’accelerazione della scienza. Le nostre sfide più grandi hanno bisogno di risposte globali – come porre fine al terrorismo, la lotta al cambiamento climatico, prevenire le pandemie. Il progresso richiede ora che l’umanità si unisca non solo in città o nazioni, ma anche come una comunità globale.

Bisogna ammetterlo: i leader americani ed europei non hanno questa visione a lungo termine. Rispetto a una Le Pen, a uno Juncker, a un Trump, Zuck sembra Churchill. Buona o cattiva che sia (ma non è né l’una né l’altra), la sua è una visione coerente, di contenuto. Parla del futuro, lo vede, lo maneggia. Gli interessa. La cosa più incredibile, e spaventosa, è che la politica non sembra accorgersi che Facebook non ha alcuna voglia di assumere l’incarico censorio che da più parti gli viene gettato addosso. Paradossalmente è Zuckerberg a limitare la tendenza della politica, in Italia ne abbiamo esempi recenti, a fargli assumere un potere dal quale non ci sarebbe forse più ritorno. E mentre accade questo, i mass media lo accusano di voler devastare definitivamente il rapporto tra produzione della notizia e redditività con la sua potenza mondiale nella pubblicità online, accusandolo dunque di volere troppo.

Il cortocircuito è servito e per ora non se ne esce. La politica invita Facebook a sostituirsi ad essa, ma Facebook è culturalmente preoccupata dalle conseguenze. I media invitano Facebook a non distruggere il loro habitat, ma il social lo ha già fatto e ritiene di avere ottime ragioni, che sono anche il nuovo motto: mantenerci “sicuri nell’informazione, con impegno civico e per l’inclusione di tutti”. Una definizione assolutamente giornalistica, che Facebook intende esportare nel secolo che non potrà più essere dei media come li conoscevamo. In queste condizioni, siamo a un passo dal rovesciamento, dal “despota illuminato”: una politica senza idee propone prodotti a scadenza breve, mentre Zuckerberg, che fa un prodotto, propone un’idea di mondo e dice che possiamo costruirlo assieme.

Ciò che dovrebbe essere ideale è prodotto, ciò che è prodotto diventa un ideale. E nulla di questo sembra sufficiente per svegliare la politica dal suo torpore; pochi si rendono conto che da tanti, troppi anni, chi commenta e si preoccupa dei fatti politici, dei cambiamenti, è più preparato di chi quei fatti e quei cambiamenti dovrebbe governare. Di fronte alla rabbia, allo spaesamento, che sono la vera fonte del caos politico – non certo i social network – non è mai stato meno qualunquista di ora affermare che si è migliori di chi ci governa. Non è sempre vero, mediamente mai, è una frase consolatoria e falsa, però inizia ad essere, in modo preoccupante, difficile da smentire per alcuni casi variamente eccellenti. Persone che però politica non la fanno, persone che nessuno vota. Persone come Mark Zuckerberg.

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