State of media: paywall e sponsor contro la crisi

Il crollo della pubblicità sta modificando il giornalismo americano e mondiale. Il paywall è quasi un obbligo e si profilano commistioni tra news e brand.
State of media: paywall e sponsor contro la crisi
Il crollo della pubblicità sta modificando il giornalismo americano e mondiale. Il paywall è quasi un obbligo e si profilano commistioni tra news e brand.

Il grande studio sullo stato dei media americani è interessante sotto molti punti di vista, a partire dal ruolo ormai sancito dei social network e del Web come player nativi di flussi e pubblicità. È appunto quest’ultimo termine a rappresentare il settore chiave di questo cambiamento, che sta portando l’informazione a modificazioni così profonde da rasentare la mutazione.

La pubblicità, secondo lo State of media 2013, è letteralmente crollata. Le televisioni e i giornali locali sono in grande sofferenza, anche i network nazionali. Il comune modello di advertising display è ormai un ferrovecchio, dalla remuneratività bassa (15 volte inferiore a quella della carta stampata ai tempi d’oro) e dalla metrica tutt’altro che consolidata e affidabile.

L’incremento, che pure c’è, è terreno dei colossi della Rete, non più degli editori: il mobile advertising, ad esempio, è cresciuto dell’80% nel 2012 arrivando a 2,6 miliardi di dollari. Di questi, tuttavia, solo un piccolo segmento è legato all’informazione, il resto (ben il 72%) di questo mercato va a sole sei aziende tra le quali Facebook, che si è immesso nel mercato soltanto a metà del 2012.

Questa proporzione non aiuta nemmeno la pubblicità locale, in crescita del 22%, perché anche in questo caso il miglioramento di geo-targeting sta convincendo molti inserzionisti a rivolgersi a Google.

Il target advertising sta crescendo anche nell'informazione locale. La ragione è presto detta: gli inserzionisti puntano su Google.

Il target advertising sta crescendo anche nell’informazione locale. La ragione è presto detta: gli inserzionisti puntano su Google.

Nulla da stupirsi, quindi, che lo studio ponga l’accento su un cambiamento che – se fosse vero – dovremo aspettarci, prima o poi, anche dalle nostre parti: la recinzione dell’informazione. Applicazioni cloud per smartphone ma soprattutto paywall, adottato da un giornale su tre:

Circa 450 quotidiani della nazione sui 1.380 totali hanno avviato o annunciato piani per un qualche tipo di abbonamento a contenuti a pagamento o un piano di paywall. In molti casi, optano per il modello freemium che permette un certo livello di libero accesso prima di richiedere agli utenti di pagare. Questa strategia permette di riequilibrare la forte dipendenza del settore dell’informazione dalla pubblicità sui canoni di abbonamento. In effetti, la pubblicità digitale per i giornali è cresciuta al tasso anemico del 3% nel 2012. Al New York Times, i nuovi account di abbonati garantiscono più degli introiti pubblicitari.

Il paywall, di cui si era parlato parecchio dopo le dichiarazioni di Carlo De Benedetti tre mesi fa, non è più un tabù – e fin qui ci siamo – ma secondo il PEW è ormai un obbligo. Concetto che ovviamente si scontra con la cultura irriducibilmente free di molti internauti, che raramente considerano abbastanza pregiata una notizia da essere degna di essere pagata, coi dovuti distinguo anagrafici, socio-demografici e anche di device: i possessori di tablet ad esempio sono più portati ad acquistare abbonamenti online.

L’erosione dell’economia dell’informazione è dovuta in altri termini al trasloco su altre piazze di annunci che una volta partivano dalla parte bassa della filiera – tivù, web-tv locali, testate giornalistiche di medie dimensioni – e che permettevano di finanziare anche la professione stessa di giornalista. Aggirata la pubblicità è stata aggirata anche la professione: soltanto che Big G e Big F non sono editori, non formano operatori dell’informazione.

Il mercato pubblicitario digitale è dominato da pochi grandi nomi.

Il mercato pubblicitario digitale è dominato da pochi grandi nomi.

Risultato? Le testate si stanno orientando sempre più verso le storie sponsorizzate, promuovono i loro contenuti direttamente sui social e tramite la Rete. Insomma, stanno aumentandno a vista d’occhio i temuti publiredazionali. Come definirli? Una parte di contenuto e una parte di pubblicità, o meglio, informazioni stimolate da un imput commerciale, in cui la professionalità dell’informatore viene messa al servizio di un brand con un patto – più o meno tacito – di rispetto delle parti.

Il tasso di crescita della categoria è seconda solo a quella dei video: gli annunci di notizie sponsorizzate sono aumentati del 38,9%, per un valore di 1,56 miliardi dollari, un balzo del 56% rispetto al 2011. Ma la questione etica è facilmente intuibile: affidarsi ad annunci “nativi” – cioè inserzioni con l’aspetto di una informazione, spesso a fianco di quella vera – per introiti facili sul web comporta molti rischi, e il checking è più alto rispetto a quello dei lettori tradizionali.

Ne sa qualcosa L’Atlantic, beccato a cancellare i commenti negativi su un articolo riguardo alla chiesa di Scientology che aveva a fianco un bell’annuncio sullo stesso oggetto. Scandalo che ha costretto il giornale a rivedere tutta la sua politica pubblicitaria.

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