La società sorvegliata

In occasione della Giornata europea della protezione dei dati personali, un convegno nella capitale con politici, giornalisti, filosofi e magistrati.
La società sorvegliata
In occasione della Giornata europea della protezione dei dati personali, un convegno nella capitale con politici, giornalisti, filosofi e magistrati.

La raccolta di milioni di dati è indispensabile per la lotta al terrorismo o sono un intralcio? E il contrasto fra queste due visioni come ridisegna il confini delle libertà individuali? In altri termini quanto controllo può sopportare una democrazia in nome della sicurezza prima di diventare un simulacro, una parvenza della società libera in cui crediamo di vivere? Domande belle, serie, giuste, al convegno organizzato dal Garante al palazzo dei Gruppi Parlamentari in occasione della Giornata europea della protezione dei dati. Uno dei dibattiti più franchi e utili sul tema dell’equilibrio tra sicurezza e privacy, nelle stesse ore in cui il ministro della giustizia francese si è dimesso per contrasti con la politica ormai furiosa del suo paese contro il terrorismo islamico che sembra pensare soltanto al tracciamento dei dati presenti in Rete.

La società sorvegliata è già un titolo indovinato per il convegno salutato dall’intervento dal presidente Antonello Soro (pdf), che non ci è certo andato leggero e ha iniziato citando Foucault e il Panopticon, metafora della società repressiva, di come oggi il rapporto tra persone e le infinite forme di sorveglianza a cui sono soggette ha a che vedere anche con una distorta volontarietà.

L’economia digitale si avvale di strumenti di controllo inseriti nei dispositivi d’uso quotidiano, la cui facilità di utilizzo contrasta con la pervasività e, soprattutto, con regole trasparenti che rendano pienamente edotti gli utenti dell’uso – e delle finalità – che quei dati consentiranno di realizzare. A questa tecnologia sempre più invasiva si affiancano “controllori” invisibili, processi di elaborazione e cessione di dati a terzi, spesso frammentati tra una moltitudine di soggetti in un contesto globalizzato, nonché la possibilità di conservare i dati per tempi illimitati. Si delinea quindi un sistema di sorveglianza capillare che noi stessi, più o meno consapevolmente, alimentiamo, per l’incontenibile desiderio di condividere tutto ciò che ci riguarda. Ma esiste un rovescio della medaglia.

Si può dire che nelle tre ore successive del dibattito in programma si è parlato soprattutto di quel rovescio, cercando di dipanare tanti dubbi e di evidenziare possibili soluzioni agli equivoci alimentati da alcune certezze che tali non sono. Da questo punto di vista perfetti gli interventi dell’avvocato e giornalista Guido Scorza e di Fabio Chiusi, grande esperto dell’argomento sorveglianza globale. Il primo ha denunciato una privacy «ormai in vendita», come una merce qualsiasi che gran parte delle persone considera come scambio equo per una serie di servizi online. E quando anche il diritto e la politica non sembrano altro che accettare questo fenomeno, o si limitano a regolarlo con informative che tutto fanno tranne che proteggere il cittadino, sembra davvero venuto il momento di un «nuovo contratto sociale, tra cittadini, governi e aziende, perché la tutela della privacy confluisce in tutte le altre tutele, dei consumatori, della sicurezza».

Chiusi ha invece smontato le illusioni ideologiche sulla condivisione, che la vorrebbero bella, a costo zero, capace di dare un senso all’esistenza. Confusioni epistemologiche, inganni veri e propri quali l’idea che le informazioni che concediamo siano gratuite e che i Big Data porteranno miracoli. Tuttavia, imporre l’argomento dello sharingbenefits, cioè la mutualità della condivisione dei miliardi di utenti del web con la diffusione dei benefici che comporta, significa scontrarsi con la scarsa attenzione dell’opinione pubblica, indifferente ai pericoli della sorveglianza perché (scioccamente) convinta che valga la regola del “male non fare, paura non avere”.

Perché farsi tutte queste domande, dicono i lettori? Il risultato di questa vittoria della propaganda è che i poteri che ci profilano sono sempre opachi e ci sembra normale che siano gli algoritmi a decidere cosa ci piace e se siamo buone o cattive persone.

Una risposta potrebbe essere quella di offuscare questi strumenti, di mandare in tilt gli algoritmi con una tecnica forse un po’ imprecisa, povera, ma comunque disponibile per chiunque: cliccare tutto, produrre rumore, inondare i social di informazioni fasulle, barare sulla localizzazione.

Spataro e Minniti

Del lunghissimo trend #EUPrivacy16 resteranno molte cose, ma uno spazio particolare va dato all’intervento del magistrato Armando Spataro, seguito poi da quello di Marco Minniti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei Ministri con delega ai servizi segreti. Un piccolo ma significativo duello a distanza che ha segnato le differenze ancora esistenti fra queste due sfere di sensibilità: Minniti sostiene che dati non siano affatto raccolti a strascico, almeno in Italia (successivamente la giornalista Stefania Maurizi l’ha smentito citando Snowden) e che servono a comprendere il fattore umano e a incoraggiare lo scambio di informazioni tra le intelligence, comunque dotate di poteri, per quanto straordinari, che non snaturano i principi della democrazia. Spataro ha fatto un intervento illuminante su questo tsunami di dati prodotti dai device e appetiti dai poteri esecutivi, smentendo che servano a qualcosa:

Vorrei sapere come milioni di dati ficcati in una banca possano servire alla lotta al terrorismo. Posso garantire, sulla base delle domande che io stesso ho fatto in occasioni di incontri internazionali coi miei colleghi, che non servono a nulla. Sul piano preventivo è addirittura di ostacolo, oltre al fatto che ad esempio gli attentati in Francia non si sarebbero potuti evitare, come è già stato dimostrato. Serve una polizia preparata per lavorare sulle persone pericolose. Sul piano repressivo invece abbiamo già tutto, le procure possono chiedere e fare tutto, efficacemente, rapidamente, e con il controllo giudiziario.

Il convegno in pillole

Non siamo miniere

È passata l’idea che ciascuno dei cittadini sia una specie di miniera di dati preziosi per la politica e l’economia, e che a consuntivo questo sia un lascito positivo di Internet per il bene delle società libere. Questa idea viene da lontano, rappresenta la base ideologica sulla quale contano sia l’impresa privata che il potere politico per la loro fame bulimica di dati che è tipica di questo tempo. Ma è un’idea falsa, oltre che terribilmente caotica quando i due desideri si incrociano, come nel caso Carrai (criticato da Spataro senza citarlo esplicitamente). In attesa di sostituirla con qualcosa di meglio, resta del lavoro da fare per mitigarne gli effetti peggiori, ad esempio costituzionalizzando i diritti di base, come si è cercato di fare in Italia con il Bill Of Rights, producendo riforme sulla trasparenza dell’amministrazione, dando poteri alla magistratura e non a società private, stabilendo valutazioni di impatto sulle vite delle persone dei provvedimenti d’urgenza, e magari – per i più propensi alla sfiducia – si può crittare tutto e offuscare gli algoritmi.

La morale di questo convegno è che privacy e sicurezza sono state volenti o nolenti messe l’una contro l’altra, e anche se nella storia è già accaduto non era mai accaduto che ci fossero le condizioni tecniche perché una delle due non si sollevasse più dal ko inferto dalle paure e dagli schemi mentali del momento. Giornate come quella odierna, dedicata alla privacy in tutta Europa, servono proprio a condividere delle pratiche, a cercare di uniformare le leggi e indirizzarle, tramite pensiero politico e accademico, ma anche dibattito dal basso, alla governance migliore possibile.

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