Regolamentazione dei blog? Capiamoci

Analisi critica delle parole di Paola Severino, la quale chiede una "autoregolamentazione" per ovviare ad una presunta deregulation dei blogger.
Regolamentazione dei blog? Capiamoci
Analisi critica delle parole di Paola Severino, la quale chiede una "autoregolamentazione" per ovviare ad una presunta deregulation dei blogger.

Al Festival del Giornalismo di Perugia ha fatto molto discutere la presa di posizione del ministro della Giustizia Paola Severino, la quale è tornata sul problema della rete e della necessaria regolamentazione dei “blog”. Quelle del ministro sono parole che seguono di pochi giorni la nuova bozza con cui si rilancia la cosiddetta “ammazza-blog“, la quale ha riproposto pari pari le disposizioni di una norma già precedentemente promossa dall’ex-ministro Alfano e puntualmente affossata in virtù delle evidenti distorsioni che avrebbe apportato alla libertà di espressione.

Gli strali della rete si sono riversati in massa contro il ministro e le sue parole, ribadendo da più parti come tale approccio al problema sia del tutto inaccettabile ed incomprensibile. Ma per andare realmente a fondo alla questione occorre ripartire proprio dalle parole, poiché le incomprensioni sembrano annidarsi in una scarsa chiarezza reciproca. Occorre ripartire dalle basi e porsi qualche domanda.

Ripartiamo quindi dalle parole del ministro Paola Severino, così come raccolte in presa diretta da Fabio Chiusi:

È molto difficile configurare un obbligo di rettifica per i blog. Proprio per questo credo che le mie parole vadano colte non come polemica, non come bavaglio nei confronti dei blog, proprio perché è un mondo privo di una regolamentazione, ad oggi. Proprio per questo mi rivolgo ai blogger direttamente, dicendo: ricordate che quello che fate agli altri potrebbe essere fatto a voi. Quindi autoregolamentatevi, autodisciplinatevi, perché allora quello dei blog diventerà un mondo veramente utile.

«È molto difficile configurare un obbligo di rettifica per i blog». Non solo tale affermazione è vera, ma è anche ovvia ed in qualche modo da demistificare. Il problema va infatti posto in altri termini. L’obbligo è infatti estremamente facile da imporre qualora si conoscano peccato e peccatore; quel che non si può fare, è imporre una rettifica quando il peccato non è stato riconosciuto da un giudice e quando per tale rettifica si richiedano tempi e modi non consoni. La “rettifica”, così come tradizionalmente intesa, è infatti un concetto applicabile alla carta stampata e ad una attività redazionale, non certo ad una pagina online o ad una persona privata. La rettifica si può chiedere ed imporre: non si capisce perché le bozze presentate impongano però tempi e sanzioni del tutto sproporzionati, non consoni al contesto e simili più ad una minaccia che non ad una misura di controllo.

«[…] le mie parole vadano colte non come polemica, non come bavaglio nei confronti dei blog, proprio perché è un mondo privo di una regolamentazione, ad oggi». Nulla è privo di regolamentazione. “Parlare” in una piazza pubblica, “parlare” su un blog o “parlare” su un social network è qualcosa di omologabile e, con i dovuti distinguo, tutte le norme esistenti possono già essere applicate alla rete. Non v’è alcuna deregulation in corso: la diffamazione è tale su qualsiasi piattaforma avvenga, qualunque sia il canale che la diffonde. E le leggi contro la diffamazione sono vigenti, applicate ed efficaci. Ad oggi, dunque, non v’è alcun mondo privo di regolamentazione ed il pensiero stesso è sintomo di una qualche incomprensione di fondo estremamente pericolosa. Se poi si vuol discutere di diritto all’oblio, allora la questione è più complessa e comunque differente.

«[…] mi rivolgo ai blogger direttamente». A chi? Chi sono i “blogger”? E questa è una incomprensione che non va imputata completamente alla Severino, poiché dietro l’etichetta “blogger” si sono nascosti in troppi e da troppi anni. Blogger è chi scrive un blog. Ma se già è ambigua la definizione di blog, ancor più lo è quella di blogger. Nell’accezione del ministro, infatti, il “blogger” è probabilmente colui il quale scrive online la propria opinione (la proposta di legge parlava esplicitamente di “tutti i siti informatici”), categoria entro cui andrebbero però compresi tanto Tumblr quanto Facebook, tanto Twitter quanto LinkedIn. Il blog in sé altro non è se non un sito, organizzato secondo modalità variegate, ma il contenitore è un elemento inutile ai fini della discussione poiché in caso di illecito è il contenuto, e non il contenitore, ad essere responsabile. Parlare ai blogger significa parlare a tutti ed a nessuno, significa affrontare una generalizzazione vuota che non porta ad alcun risultato. Se ci si vuol capire, occorre utilizzare categorie accertabili e la cui definizione sia chiara e condivisibile. Per lo stesso motivo, ovviamente, definire “ammazza-blog” la norma che il ministro intendeva proporre è cosa viziata dal medesimo problema di fondo.

«[…] ricordate che quello che fate agli altri potrebbe essere fatto a voi». Una precisazione che si fa provocazione gratuita, oltre a quel “voi” che segna una chiara distanza: come se la stessa Severino non potesse essere teoricamente assimilabile ad un “blogger” il giorno stesso in cui inizierà a scrivere online la propria opinione invece di calarla dall’alto di una cattedra o di una poltrona. Un “voi” che si fa categoria, pur se definita soltanto per differenza: “voi” che non siete “noi”. Quasi a proporre un “Ordine dei Blogger” dopo che già l’Ordine dei Giornalisti mostra tutti i propri limiti, le proprie debolezze e la propria intrinseca fragilità.

A tutto ciò si potrebbe aggiungere «i blog possono fare più danni dei giornali» ed altri concetti che aggiungono caos al caos, rendendo l’intero dibattito più una caotica accozzaglia di concetti promiscui che non un reale percorso verso la comprensione e la soluzione del problema.

Ciò che muove il ministro è una motivazione condivisibile: serve chiarezza, serve una direzione di approccio condivisa, serve una autoregolamentazione che possa districare la matassa. Al tempo stesso il modo con cui il problema viene affrontato cela una diffidenza di fondo e la difficoltà nel concepire la rete come qualcosa di diverso dalla stampa. “Rettifica”, “blogger”, “blog”: capirsi sui termini sarebbe il primo passo, capirsi sui metodi sarebbe il secondo. Il terzo vien da sé: la comprensione per cui non serve alcuna norma poiché non esiste alcun problema da regolamentare. Occorre semplicemente capire la realtà, adattare le vecchie categorie alle nuove emergenze ed applicare le normative esistenti al nuovo contesto.

Occorre capirsi per potersi parlare. Ed occorre ascoltarsi per potersi capire.

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