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Sono ore davvero infuocate, quelle che hanno visto Apple in prima linea per la difesa della privacy. A seguito delle richieste delle corti statunitensi di ricavare i dati personali da un iPhone appartenuto a uno degli attentatori di
Le vicende sono ormai ben note: una corte statunitense ha imposto ad Apple di fornire un ragionevole supporto all’FBI, affinché l’agenzia governativa possa ricavare i dati personali salvati su un iPhone 5C, precedentemente posseduto da uno degli attentatori di San Bernardino. Dal lancio di
La notizia giunge dall’agenzia Reuters, nel riportare le parole di Josh Earnest, portavoce della Casa Bianca. Secondo quanto riferito, Apple non sarebbe stata chiamata a fornire un backdoor per tutti i suoi dispositivi, né a creare una versione dei propri sistemi operativi che la includono. Alla società è richiesto di lavorare su un singolo dispositivo, si spiega, una necessità che non sarebbe in contraddizione né con la protezione della privacy, né con le normative statunitensi.
Eppure quello di Apple non è un dissenso sul fronte tecnico, è una battaglia di principio. Così come più volte ribadito dal CEO Tim Cook nel corso degli ultimi mesi, anche una singola backdoor potrebbe minare profondamente la sicurezza degli utenti, poiché fornirebbe strumenti di cui non è possibile escluderne un uso illecito.
Nelle mani sbagliate, questo software – che oggi non esiste – potrebbe garantire lo sblocco di un iPhone da chiunque ne detenesse il possesso fisco.
In attesa di scoprire il prossimo passo della vicenda, sono state molte le reazioni alla polemica in corso, tra chi sostiene Apple stia agendo correttamente e chi, invece, pensa stia limitando la capacità d’indagine dell’FBI. Al momento l’universo tecnologico e la Silicon Valley si schierano a favore di di Cupertino.