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Tutti si chiedono prima o poi come fanno. Come riescono a mandarci continuamente mail, a volte vera e propria spam, a volte sono newsletter, proposte commerciali, anche contenuti interessanti ma che non abbiamo mai chiesto. Come ci riescono? Se la profilazione social è intuibile, visto che è l’attività stessa dentro un sito a personalizzare la pubblicità visibile dentro di esso, com’è possibile la profilazione per mail senza che si dia mai il proprio indirizzo a nessuno? Il caso di Change.org rivelato dall’Espresso è un ottimo esempio di metodo legale per ottenere indirizzi e rivenderli: con una firma a una petizione.
Qualche giorno fa il settimanale L’Espresso ha pubblicato una
Le
Il modello di business infatti è tipicamente californiano (il quartier generale è a San Francisco): gratuità del servizio in cambio di dati. Molti dati. Il primo dei quali è la mail che viene fornita all’atto di firma di una petizione. A seconda dell’ambito gli acquirenti delle mail, le parti terze, studieranno le altre campagne o le pubblicità più adatte: chi firma petizioni animaliste è diverso da chi firma petizioni politiche o su vicende di cronaca. E scegliendo di ricevere da Change.org per mail altre notizie di fatto si dà l’assenso – che sia realmente informato oppure meno è tutto da discutere – a finire in un vero prezzario, da un euro e mezzo a 85 centesimi a indirizzo. Questo è il prezzo per i pacchetti di indirizzi mail. I nostri.
Il prezzario di .@Change ottenuto a @espressonline deve far capire come regaliamo nostro petrolio:dati personali https://t.co/8JSBq2Lv7y
— Stefania Maurizi (@SMaurizi) July 18, 2016
La partecipazione
Vista così non sembra una grande novità. In un mondo dove i
.@meobaldo così #Change.org vende le nostre email . Abbiamo ottenuto il prezzario https://t.co/8JSBq2Lv7y
— Stefania Maurizi (@SMaurizi) July 18, 2016
A proposito della trasparenza e informazione precisa sulle tecniche di processo dei dati e loro conservazione Change.org non è all’altezza degli obiettivi continentali, almeno stando a Thilo Weichert, ex commissario per la protezione dei dati del land tedesco Schleswig-Holstein, che contesta alla società la violazione delle leggi della Germania in materia di privacy (le più restrittive della zona euro, com’è noto). Nella zona grigia insediata fra una legislazione europea incompleta e la fuga in avanti tecnologica delle piattaforme globali si può annidare effettivamente una profilazione brutale basata su un silenzio dell’utente che somiglia troppo all’effetto di una studiatissima dissimulazione. Sarebbe interessante conoscere il parere del Garante italiano della privacy a tal proposito: ad oggi non ha ricevuto alcuna segnalazione e l’autorità si sta riservando di approfondire l’argomento. C’è ad esempio da stabilire la competenza territoriale e il rapporto possibile con un’azienda totalmente americana.