Pedoporno: la cache non è peccato

Una Corte USA ha scagionato un utente imputato per possesso di immagini pedopornografiche: la cache del browser non implica possesso e colpa.
Pedoporno: la cache non è peccato
Una Corte USA ha scagionato un utente imputato per possesso di immagini pedopornografiche: la cache del browser non implica possesso e colpa.

Una sentenza emessa presso una Corte USA è destinata a far discutere poiché cala sul mondo della pedopornografia un distinguo fondamentale: quello tra la fruizione ed il possesso di materiale pedopornografico. La sentenza, nella fattispecie, consente ad un professore di un college di farla franca dopo essere stato incriminato nel 2009 a causa delle immagini trovate sulla cache del suo browser.

La sentenza, pur se apparentemente clamorosa, ha però una sua logica. Quello che il giudice ha voluto sottolineare è il fatto che il possesso di immagini all’interno della cache del browser non sia lo stesso di possedere immagini direttamente salvate e archiviate sul proprio hard disk. Differente, infatti, è la natura del possesso ed il “dolo” dello stesso: nella cache finiscono immagini aperte con semplice navigazione online, e quindi potenzialmente anche in modo involontario; il possesso implica invece una azione di salvataggio, cosa ben differente in quanto azione esplicitamente volontaria.

Una sentenza di questo tipo farebbe probabilmente acqua da tutte le parti se messa alla prova con lo streaming video, ove fruizione e possesso non coincidono. Il ragionamento regge invece nell’ambito delle immagini statiche, ove fruizione e possesso sono nella maggior parte dei casi concetti coincidenti.

Sulla base di questo ragionamento il professor James D. Kent è sfuggito comunque in appello alle incriminazioni per possesso di materiale pedopornografico formulate nel 2009 nei suoi confronti. Ai tempi il caso emerse a seguito della scoperta del materiale dopo che il pc dell’imputato era stato affidato ad una persona terza per l’installazione di un antivirus. Il prof. Kent spiega di non aver mai navigato siti di tale tipologia e gira pertanto le responsabilità a qualcuno che può aver effettuato tale navigazione durante il periodo di assistenza.

Ma i fatti contano poco, perché quel che si impone è il principio scritto a sentenza dalla Corte: una cosa è la cache e una cosa è una normale cartella di archivio. Il processo alle intenzioni, in questo caso, parte dalla conoscenza tecnica.

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