Il voto elettronico in Lombardia non è un modello

Il voto elettronico lombardo è talmente semplificato che probabilmente non darà problemi, ma scordiamoci di usarlo per altre elezioni: ci vuole scrupolo.
Il voto elettronico in Lombardia non è un modello
Il voto elettronico lombardo è talmente semplificato che probabilmente non darà problemi, ma scordiamoci di usarlo per altre elezioni: ci vuole scrupolo.

Domenica più di sette milioni di elettori potranno, se vorranno, partecipare alla prima chiamata al voto gestito digitalmente: nei seggi per il referendum sull’autonomia voluto dal Pirellone, non ci saranno schede cartacee e matite copiative, ma dei tablet speciali con una interfaccia appositamente studiata per consentire di esprime un sì, un no o il non voto (scheda bianca, che resta comunque un voto conteggiato) al quesito posto. Non si tratta di una elezione complessa come quella del rinnovo del Parlamento, ed è proprio questa la ragione che ha consentito di immaginare il voto elettronico per la prima volta in Italia. Già, ma è davvero un sistema sicuro? Ma soprattutto, è coerente con le garanzie preesistenti della nostra democrazia?

In queste ore molti avranno già deciso se votare oppure no, e quelli che lo faranno saranno certamente informati dell’originale sistema di voto della Smartmatic, l’azienda che si è aggiudicata l’appalto di fornitura di questi dispositivi e del sistema software. Nello speciale sul voto elettronico, Webnews ha già detto tutto quanto riguarda la tecnica di voto, e dal punto di vista concettuale già un anno fa si è lanciato un allarme a proposito di voti tech, che spesso si sono rivelati insicuri. Se a tutto questo aggiungiamo la denuncia di Matteo Flora, che sostiene di aver impiegato poche ore per scovare materiale di un certo peso in diversi server che potrebbero consentire (certo, con più tempo a disposizione) a un malintenzionato con qualche competenza informatica di hackerare i dispositivi, ci si rende presto conto che l’approccio consapevole a questo voto non può essere definito sereno.

Stando alle poche cose certe, si parla di un circuito chiuso composto da device offline con tre opzioni semplici registrate in bit e trasmesse, tutte quante alla fine degli input, con un output digitale e un registro cartaceo parallelo equivalente. Di fatto, è più imparentato con un registratore di cassa che con Black Mirror, diciamolo apertamente. Ma non è questo il punto. La debolezza intrinseca del voto elettronico risiede almeno a tre livelli. Quando è offline, la comunità scientifica considera il minimo standard il cosiddetto ballot paper, cioè l’obbligo di stampare una ricevuta per ogni preferenza espressa per il controllo a posteriori. Purtroppo, nel voto lombardo ci saranno stampe “a campione”, circa 1300 sui 24 mila tablet, e questo impedisce di realizzare un equivalente del controllo democratico tangibile tipico delle elezioni: con le schede è teoricamente possibile perdere qualche voto, ma nessuna forza straniera, gruppo terroristico, o hacker potrà mai alterare il risultato.

Il secondo livello di problematicità è la verifica del voto quando questo, invece, fosse online. Il voto online sembra attualmente l’unica strada possibile per gestire votazioni complesse come le elezioni comunali o quelle nazionali. Anche immaginando infatti di avere un sistema di voto elettronico perfetto (che però non esiste), anche per standard e trasparenza, alla fine tutti i voti verrebbero archiviati in database con accessi non verificabili, elaborati con procedure elettroniche non sempre verificabili e questo renderebbe non verificabile il vincitore.

Il terzo livello è più concettuale, ma è quello che come Webnews ci permettiamo di alzare dalle voci di cronaca: il voto elettronico non può essere circoscritto a un problema di “data science”: è un problema analitico. In soldoni, è una questione democratica così sensibile che non si può approcciare come farebbe un estrattore minerario: “c’è un giacimento di dati, vediamo cosa ne posso fare”; bisogna invece partire dal problema, dall’esigenza, cioè bisogna chiedersi “che dati mi servono perché il mio modello funzioni?”. Soltanto con un design che parta dal bisogno, invece che dalla disponibilità facile del dato, è possibile immettere uno scrupolo morale al modello, e quindi al dispositivo e infine al risultato. Altrimenti è quasi scontato finire nel pantano delle prescrittività delle cose “tecnologiche” che tendono ad abbassare la nostra soglia di attenzione.

Per questa ragione, se davvero come Paese vogliamo andare verso il voto elettronico, c’è bisogno urgente, subito, di un tavolo che veda assieme ingegneri informatici e costituzionalisti. Il voto elettronico stressa l’infrastruttura del voto così com’è sempre stata e tutta la tecnologia più sicura del mondo – che tanto sicura quasi mai è – non sostituisce la decisione umana. Dobbiamo decidere come vogliamo lasciare che le macchine decidano. È un lavoro anche umanistico. E di sensibilità politica, in queste prime vicende di e-vote italiche, se ne è vista poca.

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