Goliat sfida i mari del nord

Goliat apre i battenti: Eni vuole vincere la sfida con i mari del nord sposando modalità di estrazione attente ad ecosistema, sicurezza e monitoraggio.
Goliat sfida i mari del nord
Goliat apre i battenti: Eni vuole vincere la sfida con i mari del nord sposando modalità di estrazione attente ad ecosistema, sicurezza e monitoraggio.

Goliat ha avviato le macchine ed è questa la notizia: in un momento nel quale divampa il dibattito sul futuro del petrolio e sulla corsa al ribasso del prezzo del greggio, Eni ha aperto ufficialmente il proprio cantiere più ambizioso, dislocato nel Mare di Barents al nord della Norvegia. Perché la cosa sia importante, è proprio nell’apparente contrasto tra i fatti ed il contesto: al centro degli argomenti dei detrattori non vi sono infatti questioni ambientali, ma economiche. E la novità è già evidente fin da questo primo aspetto, spostando ogni valutazione sul tema della finanza e della geopolitica. Ma terminando ancora una volta sui passi avanti che l’innovazione abilita.

Questo viene contestato a Eni: l’apertura di un cantiere destinato a lavorare in perdita. Al netto di queste valutazioni di carattere meramente economico, basate sulla semplice differenza aritmetica tra l’attuale prezzo del petrolio e il break-even di Goliat, non si registrano ulteriori argomentazioni di rilievo. Ecco perché l’apertura dei lavori sull’infrastruttura Goliat è importante: è la cartina di tornasole su cui valutare molte situazioni, soprattutto in ottica ambientale, per arricchire di pesi e contrappesi il dibattito in corso.

Cos’è Goliat

Coordinate 71°16’4,8”N; 22°6’46,8’’E: alcune miglia più a nord della punta più settentrionale della Norvegia. Luoghi ameni, dove i ghiacci non sono permanenti ma ogni tipo di presenza e attività umana è resa proibitiva dalla temperatura e dalle asperità del mare in prossimità del circolo polare artico. Luoghi, però, dal sottosuolo particolarmente ricco: non lontano da Goliat sono presenti anche altre attività di estrazione, in questo caso concentrate sul gas.

Goliat

Cosa sia Goliat (progetto al 65% di proprietà Eni e al 35% di proprietà Statoil) è ben descritto dalle parole di Greenpeace, gruppo che ne ha seguito l’evolversi fin dalle origini: «ben più di una piattaforma: è una Floating, Production, Storage and Offloading (FPSO). […] per operare sul campo petrolifero più settentrionale al mondo, ENI ha ordinato alla norvegese Sevan Marine il più grande FPSO cilindrico mai realizzato: FPSO Sevan 1000, costruito nei cantieri HHI a Ulsan, in Corea del Sud. Sevan 1000 è un enorme cilindro “svasato” verso l’alto, con un diametro di 90 metri che, nella piattaforma superiore, arriva a 107 metri. A parte le gru, Goliat torreggia sulla superficie dell’oceano da c.a. 50 metri d’altezza e può immagazzinare fino a 160 mila metri cubi di petrolio (un milione di barili, 137 mila tonnellate)».

Il 17 aprile 2015, dopo 63 giorni di navigazione tra il Pacifico e l’Atlantico, dalla Corea alla Norvegia, Goliat è giunto alle coordinate previste. Qui è stato agganciato al fondale attraverso 14 ancore, quindi sono iniziate le attività previste. L’attività della piattaforma prevede 22 pozzi, 12 dei quali sono di produzione, 7 per iniettare acqua nel sottosuolo e 3 per iniettare gas. A regime si conta di raggiungere un’attività estrattiva pari a 100 mila barili al giorno, esaurendo la completa capacità del giacimento entro 15 anni circa.

Goliat nel teatro della biodiversità

Goliat è un’impresa offshore titanica, della quale Eni sottolinea la particolare complessità dovuta alla necessità di garantire la salubrità di ecosistemi particolarmente fragili: «operare nell’Artico significa lavorare in un contesto molto complesso dal punto di vista ambientale, data la ricchezza di biodiversità e la particolare sensibilità degli ecosistemi locali. Le attività devono essere condotte con l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia, norme ad hoc per garantire la sicurezza degli operatori e una collaborazione continua con le comunità locali». Ecco perché, continua il cane a sei zampe, «il progetto ha impiegato sistemi tecnici a basso rischio per l’ambiente e per le persone impiegate, pur considerando le condizioni estreme che caratterizzano l’area».

Gli idrocarburi viaggiano su navette in grado di resistere alle tempeste artiche, i sistemi di sicurezza e monitoraggio sono all’avanguardia e all’interno dell’impianto non mancano i comfort: palestra, internet veloce e una mensa con vista balene…

Goliat: rappresentazione

Una sfida tecnologica di alto livello, insomma, per due motivi: il contesto operativo è particolarmente complesso e la sensibilità delle popolazioni locali (ma non solo) circa i possibili problemi legati a estrazione e trasporto del greggio è particolarmente elevato. Di qui la scelta di operare con il minor impatto ambientale possibile, agendo su più fronti:

  • la piattaforma è alimentata per metà del proprio fabbisogno da energia elettrica proveniente dalla terraferma tramite il più lungo cavo elettrico sottomarino del suo genere: così facendo sarà fortemente ridotto il numero delle emissioni in mare aperto;
  • «il gas associato non verrà bruciato, ma sarà re-iniettato direttamente in giacimento (fino a 1 miliardo di metri cubi l’anno)»: per estrarre petrolio dal giacimento, infatti, occorre insufflare acqua e gas ad alta pressione, così che si crei uno scompenso che porta il greggio verso l’alto per poterlo immagazzinare prima del trasporto. Al pari del gas, anche l’acqua estratta sarà reimmessa in circolo, evitando di intaccare le zone circostanti non solo tramite versamenti fortuiti, ma anche attraverso i prelievi;
  • «Il campo di produzione di Goliat si avvale di pozzi e pipeline sottomarine all’avanguardia, con sistemi di monitoraggio innovativi in grado di intercettare e circoscrivere eventuali sversamenti direttamente nelle vicinanze dell’evento così da evitare qualsiasi impatto sulla costa»;
  • alle attività di Goliat sono collegati 30 progetti di ricerca e sviluppo basati su metodi strategici, logistici e industriali finalizzati alla prevenzione e gestione di eventuali sversamenti d’olio nell’area: università e istituti di ricerca norvegesi, oltre alle comunità locali, sono state coinvolte attraverso Eni Norge;
  • 3 milioni di euro sono stati investiti nel sistema coordinato di risposta alle emergenze “Coastal Oil Spill Preparedness Improvement Programme (COSPIP)“: nasce così un vero e proprio standard che sarà adottato da tutte le future operazioni nel Mare di Barents.

Attività sfidanti, insomma, che il gruppo italiano presenta come avanguardia non solo della propria attività, ma dell’intero settore petrolifero:

Il progetto Goliat, grazie ai metodi e alle tecnologie sviluppate in questi ultimi anni dimostra la capacità di Eni di inserirsi anche in contesti apparentemente ostili e di cogliere le opportunità che essi offrono.

Va notato come la stessa scheda Greenpeace legata a Goliat ne contesti non tanto il profilo ambientale (sul quale è stata posta particolare attenzione da parte del gruppo italiano, anche e soprattutto attraverso una forte collaborazione con le autorità norvegesi), quanto l’inopportunità economica e la non aderenza ad una visione che vorrebbe un futuro dell’energia lontano dal petrolio. Greenpeace descrive il cantiere come un “elefante bianco” destinato all’estinzione poiché il prezzo del petrolio (che secondo alcuni analisti potrebbe sperimentare d’ora in poi un prezzo ribassato non a causa di un semplice ciclo, ma per una vera e propria perdita stabile di valore) non rende più economicamente sostenibile l’attività di estrazione nei mari del nord. Questioni economiche e di opportunità, insomma, le cui sentenze arriveranno presto dal mercato.

L’avvio delle attività nel campo di produzione di Goliat, del resto, avviene a poche settimane dal via libera ottenuto dalla PSA (“Petroleum Safety Authority“), di cui la stessa Greenpeace riconosce «l’effettiva indipendenza […] dalle compagnie petrolifere» in qualità di modello di riferimento per le attività offshore. Quel che ne discerne è l’implementazione di maggiori standard di sicurezza e qualità in campo petrolifero, standard la cui applicazione si è resa però sempre più complessa a causa di un prezzo del greggio al ribasso che fa a pugni con un break even considerato troppo alto. Il passaggio ad un concetto operativo “zero discharge” e la fattiva collaborazione tra i team di estrazione e comunità locali eleva però l’asticella delle garanzie e del monitoraggio, riducendo i rischi per assicurare la sostenibilità di imprese tecnologiche come Goliat.

La sensazione è che rispetto al passato ci sia una maturata consapevolezza a prendere il posto di contrapposizioni ideologiche dimostratesi sterili. A fare la differenza è la direzione verso cui è orientata l’innovazione oggi: nuove tecnologie e nuovi fondi destinati alla ricerca hanno consentito di alzare la qualità delle operazioni grazie alla moltiplicata sensibilità nei confronti dell’ambiente. L’attenzione alle emissioni ed alla sicurezza, in questo contesto, da costo diviene valore aggiunto ed asset che il mercato è in grado di riconoscere e apprezzare. Il fatto che in questa avanguardia ci sia tecnologia italiana (vedi anche il progetto Clean Sea), proveniente dai medesimi colori che stanno portando il tricolore su Marte, è elemento positivo che avvalora ancora una volta le potenzialità dei laboratori di ricerca e sviluppo nostrani.

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