Cina, niente anonimato sugli instant messenger

La Cina impone la registrazione di nomi autentici sugli instant messenger, impedendo la pubblicazione di articoli politici se non dietro autorizzazione.
Cina, niente anonimato sugli instant messenger
La Cina impone la registrazione di nomi autentici sugli instant messenger, impedendo la pubblicazione di articoli politici se non dietro autorizzazione.

La Cina ha imposto limiti estremamente restrittivi nell’uso degli instant messenger da parte della popolazione. In particolare è vietato l’uso anonimo degli stessi, così come l’uso di acronimi o nomi fasulli: si può chattare soltanto a seguito di registrazione con account veritiero e certificato, così che ogni cosa scritta possa essere ricollegata al diretto responsabile.

Al fianco di ciò, una restrizione ulteriore grava sull’utenza: l’impossibilità di pubblicare o ripubblicare (tweet e retweet, post e condivisioni) articoli di contenuto politico al di fuori delle autorizzazioni statali. La commistione delle due imposizioni è feroce: nessuno potrà scrivere sui social media se non dietro previo riconoscimento e autorizzazione, rimanendo in ogni caso sempre sotto il giogo dello stato centrale ogni qualvolta si vada ad esprimere la propria opinione online. Va da sé che la stessa opinione pubblica rimane castrata, poiché sottoposta ad un continuo effetto “panopticon” molto simile a quel che “1984” ha descritto in tempi non sospetti.

Nulla di nuovo sotto il sole, in realtà: semplicemente nuove realtà come WeChat hanno raggiunto una popolarità tale per cui lo stato ne ha richiesta l’adesione alle imposizioni della filosofia socialista per il bene della Cina e della solidità delle proprie istituzioni. Assieme a WeChat coinvolti anche nomi quali Xiaomi, NetEase e Tencent QQ. Tanto gli account aziendali quanto quelli privati saranno sottoposti a medesime restrizioni, con il fine ultimo di controllare in modo capillare le fonti del passaparola e gli eventuali focolai di opposizione a quelle che sono le direttive imposte a livello centrale. Il tentativo di mediazione di Tencent con lo State Internet Information Office (SIIO) punta proprio su questo punto: limitare eventualmente la libertà degli account pubblici, ma offrire in cambio maggiori libertà a quelli privati.

L’effetto potrebbe essere immediato: l’utenza potrebbe essere incoraggiata ad abbandonare i network emergenti e sottoposti alle nuove normative, evitando una riconoscibilità che andrebbe giocoforza a castrare la libertà di espressione. La diaspora verso nuovi strumenti potrebbe essere dunque immediata e per l’apparato centrale l’obiettivo sarebbe comunque raggiunto: frammentare l’opinione pubblica invece di consentirne l’assembramento attorno a pochi strumenti significa spezzare i canali del passaparola e limitare pertanto l’insorgere di pericoli destabilizzanti all’interno di un enorme paese che vive su fragilissimi equilibri tenuti assieme da un marmoreo sistema di monitoraggio, controllo e repressione.

Riflessioni necessarie

La Cina, mai come in questo caso, è estremamente vicina. Perché se sorge spontanea un’obiezione ferma contro le restrizioni imposte nel paese oltre la Muraglia, al tempo stesso ci si deve confrontare con algoritmi indiscreti che, tanto su Gmail quanto su OneDrive, sono in grado di scrutare i contenuti degli utenti e fermarne la diffusione. L’obiezione per cui il caso occidentale si limiti alla pedofilia non regge: quello che un algoritmo è in grado di fare è semplicemente analizzare un contenuto, dopodiché è la legge umana a stabilire ove stiano i limiti della tolleranza, quelli dell’intolleranza e quelli della libertà.

Ma non solo. Guardare al caso cinese, è utile anche per ripensare a quelle proposte di legge che anche in Italia hanno tentato di cancellare l’anonimato online. Per semplicità si possono ricordare Gabriella Carlucci o Enrico Mentana, ma anche molti altri: l’anonimato è stato additato più volte come maschera dietro cui si nasconde il delinquente, ma al tempo stesso occorre riconoscerne il valore di fronte alla possibilità di garantire la libertà di parola.

Trovare il giusto equilibrio non è semplice, ma doveroso: in una dimensione nella quale l’occhio delle macchine è sempre più pervasivo nella vita delle persone, imporre l’identificazione significa cancellare la possibilità di evitare ritorsioni al cospetto della propria opinione personale. La Cina è lontana soltanto nella misura in cui si è pienamente consapevoli di quale sia la reale dimensione nella quale vive l’occidente. I casi Gmail e OneDrive dovrebbero imporre una riflessione più seria in proposito, per capire quale sia la via più corretta per il perseguimento dell’ideale di libertà. Perché se un principio assoluto diventerà un principio delegato al controllo di algoritmi, allora qualcosa di molto profondo potrebbe essersi incrinato.

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