Se fin da subito l’affair Make my Baby è sembrato un pasticcio di dubbio profilo etico, l’evolversi della situazione sembra rivelare del marcio ulteriore. E quello che poteva apparire come un inciucio tra Facebook e Bing ai danni dell’utenza sembra rivelarsi invece oggi una sorta di pratica comune (da cui Google non è escluso) con strategie più o meno raffinate per fare in modo che il traffico possa essere acquisito e trattenuto per costruire con la forza nuove quote di mercato.
Inizia tutto con l’accusa di Matt Cutts prendendo spunto da una indagine che vede, come terzo maggior investitore pubblicitario su Facebook, un sito di dubbia natura che impone agli utenti un plugin tale per cui, ad installazione avvenuta, Bing risulta imposto come motore di ricerca predefinito. Facebook ci guadagna in advertising, Bing ci guadagna in quote di mercato, lo sviluppatore ci guadagna in termini di revenue sharing sui click successivi sugli annunci pubblicitari. A perderci è l’utente.
A distanza di 24 ore il quadro della situazione si fa più chiaro e le prime reazioni sono immediate. Innanzitutto emerge che Make my Baby non è in realtà il terzo maggior investitore su Facebook e, anzi, il social network nega del tutto ogni rapporto con tale realtà. Se tutte le dichiarazioni raccolte sono sincere, significa che Make my Baby investe soprattutto su MySpace ed altri social network, ma su quest’ultimo aspetto non vi sono conferme formali. In ogni caso Bing avrebbe interrotto le collaborazioni per non meglio definite irregolarità e fin dal primo controllo da noi svolto nella giornata di ieri il sito risultava irraggiungibile.
Nel rispondere alle accuse, però, Microsoft restituisce a Matt Cutts la stessa moneta avvelenata ricevuta 24 ore prima: Microsoft sottolinea infatti che realtà quali OurBabyMaker.com (attenzione: la visita del sito potrebbe portare all’installazione di software non desiderat) non portano avanti cose troppo differenti. La verifica di Search Engine Land dimostra che il sito è gestito da IAC (partner Google) e che anche in questo caso le toolbar sono lo strumento prediletto per giungere ad imporre la propria soluzione per ricavarne revenue sharing.
In modo più o meno diretto, insomma, tanto Bing quanto Google avrebbero tratto vantaggio dalla condivisione di introiti con produttori di toolbar che operano in modo opinabile con esche online in grado di attrarre e catturare utenza. Una tecnica che, negli anni, evidentemente dimostra ancora la propria efficacia.